Riceviamo e volentieri pubblichiamo
di Alberto Contu, Marina Sacchetto, Oreste Borra e Claudio Gorlier. Gli autori fanno parte dell’Assemblea di Cultura in Movimento
In questi ultimi mesi si è sviluppato un acceso, documentato e approfondito dibattito sul confronto tra la scuola pubblica e le esperienze alternative (asili nel bosco, scuole parentali e libertarie). Contestualmente si sente parlare nei canali istituzionali dell’apertura estiva delle scuole per attività educative (ad esempio artistiche, sportive e musicali) e di recupero di apprendimenti, sulla base dei Patti educativi di comunità sostenuta dal Piano Scuola 2021, e promossa in questi giorni dal maestro Lorenzoni, consulente dell’attuale comitato tecnico istituito dal ministro Prof. Bianchi.
Questa congiuntura, che ci ha dato modo di conoscere le voci che stanno contribuendo al discorso educativo con un apporto ricchissimo di conoscenze e di riferimenti bibliografici, storici e filosofici, è stata formativa e ci ha stimolato a riflettere insieme, per sciogliere la sensazione di confusione e i dubbi che nascono nel momento in cui entra in gioco la nostra esperienza personale a livello locale.
Ecco la prospettiva da cui si sviluppa il nostro punto di vista. Siamo educatori che lavorano in progetti pedagogici nel campo del privato sociale: abbiamo sempre cercato di declinare le nostre attività verso un’impostazione dichiaratamente pubblica e “dal basso”. I progetti sono connotati da una soglia di accesso molto bassa: quote di pagamento popolari se non nulle per il centro di aggregazione/doposcuola; la libera e non sempre semplice accettazione del nostro ruolo da parte dei bambini, adolescenti e giovani per quanto riguarda l’educativa di strada. E sono sempre co-finanziati da fondi statali, regionali, comunali.
Negli anni abbiamo provato a lottare con compagni e compagne per una condizione lavorativa più dignitosa da un punto di vista sindacale (gli educatori vivono con contratti precari e in certi casi al limite del legale)[1]e per maggiori investimenti pubblici per il settore educativo sociale.
Dal punto di vista dei contenuti educativi abbiamo tentato di smarcarci da quella visione, della quale siamo in gran parte responsabili noi stessi operatori del settore, che da un lato ci identifica come pseudo insegnanti di serie b e quindi custodi, assistenti per i compiti, esperti del disagio sociale, “professionisti in sfighe umane e sfighe umane loro stessi” e dall’altro come lavoratori dell’intrattenimento nelle sue innumerevoli determinazioni: artistico, teatrale, ludico, sportivo o musicale.
Ancora di più oggi ci muoviamo per un percorso personale e collettivo che:
– possa tenere insieme militanza politica (quanto meno resistenziale rispetto allo stato di cose presenti) e professionalità educativa.
– sviluppi una voluta, costante e più documentata possibile prassi di pedagogia sociale e popolare.
Proprio rispetto a questi due ordini del discorso proveremo ad entrare un po’ di più nel merito della discussione di queste settimane.
Partiamo dalla questione di fondo, che in realtà rimane come qualcosa di presente eppure non detta, non dichiarata esplicitamente, nei vari interventi sull’educazione: la domanda politica, che potrebbe essere tradotta in: Quale città (territorio) vogliamo costruire? E ancora: Che comunità vogliamo creare? Interrogativi che rimandano immediatamente al senso di ogni pratica pedagogica e al tipo di relazioni sociali che vogliamo realizzare.
Riferendoci a Freire sappiamo tutti che l’educazione è politica in quanto non vi è mai nulla di neutrale nella relazione educativa, che costitutivamente “obbliga” a schierarsi. Pur senza definire un rigido nesso unilaterale di causalità, e senza negare una relativa autonomia dell’ambito educativo, la relazione tendenziale tra i due termini porta l’educazione ad essere funzione e strumento della politica.
“Per quale società vogliamo educare?” è la domanda fondamentale. Dal nostro punto di vista viene prima delle altre su cui ci interroghiamo rispetto alle modalità che utilizziamo per costruirci e costruire soggetti comunitari (che preferisco a cittadini). Crediamo sia una domanda decisiva per chi opera nel campo educativo, che rende chiari ed espliciti i riferimenti di senso a cui tendiamo nella quotidianità. Liberiamo il campo da impacci e fraintendimenti: crediamo che questo mondo vada trasformato alla radice, solamente aggiustato o lo promuoviamo come il migliore possibile? O pensiamo che sia, tragicamente, l’unico possibile?
È vero, stramaledettamente vero, che definire ciò che vogliamo politicamente sta diventando sempre più complesso, in particolare per chi si definisce antifascista e anticapitalista. Il nostro orizzonte ideologico non trova gambe solide su cui camminare, pronunciare il termine “rivoluzione” espone al ridicolo: temiamo che qualcuno, il primo che passa, ci chieda “Tu e quale esercito?”. Il rischio è che l’assenza di concretezza del concetto, unita alla voglia di veder realizzato qualcosa di nostro, ci metta nella condizione di credere di poter fare “la rivoluzione” in un ambito, come quello educativo, che può essere, seppur strettamente intrecciato, solamente propedeutico al cambiamento politico.
Nell’attuale fase neoliberista, Stato e Mercato procedono di concerto rafforzando lo sfruttamento, le disuguaglianze e la devastazione ambientale del capitalismo. Questo è il punto di convergenza da cui partire per un confronto e una ricerca comune. È necessaria una discussione politica approfondita tra chi difende la scuola pubblica, ma si pone in maniera critica rispetto alla sua istituzionalizzazione e aziendalizzazione; chi si impegna in una scuola libertaria, affrontando le storture dell’essere non universalistica e quindi “privata”; chi si dimena nell’ambito socioeducativo per una diffusione di un diritto alla città pedagogico, affrontando la contraddizione di essere finanziato anche da fondazioni private e sempre meno dal pubblico: sottolineare le rispettive debolezze dovrebbe portare a una reale apertura verso gli altri, alla dismissione di atteggiamenti autoreferenziali e della convinzione che la propria impostazione sia l’unico baluardo politico/educativo foriero di cambiamento sociale.
Arriviamo quindi al secondo argomento di discussione.
Notiamo che nel dibattito si tendono a sovrapporre il termine scuola e la pratica scolastica all’educazione e a tutto il processo educativo. Non concordiamo per nulla.
Facciamo nostra la riattualizzazione, la ripresa e la teorizzazione pedagogica fatta in primis da Riccardo Massa e poi da Raffaele Mantegazza del concetto di dispositivo di Foucault: siamo convinti che il processo formativo individuale e comunitario avvenga per mezzo di tutti i discorsi, gli ambiti, le attività, i tempi, gli spazi, i contenuti, i soggetti, gli oggetti, le norme, i rituali, le tecniche, legati alla trasmissione della cultura, alla promozione di valori e alle interazioni, anche inconsapevoli, tra tutti questi elementi.
La prassi scolastica, pur essendo una componente che per storia, tempi e modalità è fondamentale e decisiva, non ha in mano la totalità dell’esperienza formativa di una persona.
Partiamo dall’assunto che si stia vivendo una grandissima crisi educativa, solo accentuata e accelerata dalla pandemia, che non è semplicemente una crisi di metodologie, pratiche, tecniche e risorse. È una condizione estremamente collegata all’orizzonte politico di cui accennavamo nel passaggio precedente, ma che nello specifico riguarda una certa idea di politica e filosofia dell’educazione.
Siamo in crisi noi (sentendoci vicini ai molti che hanno scritto gli articoli da cui sono partite le riflessioni) che intendiamo la scuola e le pratiche di pedagogia sociale come momenti di apprendimento e conoscenza che possano formare quei soggetti comunitari già citati prima, che capaci di dotarsi di concetti e letture critiche possano agire nella, con e sulla realtà attraverso la riappropriazione dei temi che riguardano le proprie vite e la polis. Per intenderci ancora meglio, la scuola definita giustamente da Carlo Ridolfi confindustriale (ahimè sia pubblica che dichiaratamente privata) non è affatto in crisi, come non lo è tutto un sistema di bulimia pseudo-educativa pomeridiana del tempo libero che va dalle ripetizioni private, allo sport più competitivo, fino a tutta quella serie di laboratori, stage, attività varie che si preoccupano di vendere esperienze.
Siamo in crisi noi non solo perché le pratiche educative (tutte! scolastiche e non) non riducono le disuguaglianze e non fungono da ascensore sociale[2], perché perdiamo persone per strada e produciamo analfabeti funzionali e sociali[3] e soprattutto perché sta vincendo il progetto neoliberale di costruzione dell’umano. Come?
Promuovendo la cultura dell’individualismo, per la quale noi tutti viviamo come se fossimo delle imprese tenute a produrre utili, ad investire, a capitalizzare. Vince la cultura del successo, fosse anche solo per un quarto d’ora, del consumo, in quanto reclamiamo diritti solo più in funzione di fruizione di servizi o beni. Siamo in profonda crisi perché non riusciamo a collegare apertamente una incarnata e appassionata pratica educativa ad un cambiamento politico di emancipazione riconoscibile e auspicabile, forse perché non riusciamo neppure più a immaginarlo.
Siamo in crisi perché quando anche vengono realizzate oneste e serie pratiche di gruppo, queste molto spesso non hanno la dotazione ideologica, metodologica e strutturale per opporsi alla cooptazione del Mercato che fa sì che ogni tentativo di pratica alternativa rientri nel dominio dell’accrescimento personalizzato, per il proprio portfolio di esperienze e competenze da acquisire e da mettere in mostra per un ritorno di immagine, di utile o di rendita ad personam.
Prendendo spunto dalla lettura di un interessante articolo uscito su Internazionale ad ottobre 2020 del già citato Franco Lorenzoni, La scuola deve continuare fuori dalla classe in cui già venivano proposti i Patti educativi di comunità, e in cui si sottolinea come “la scuola pubblica deve restare al centro di ogni azione, certo, ma non può che giovarsi di un intreccio proficuo tra istruzione formale e non formale, capace di arginare la desertificazione culturale” vorremmo proporre un’ultima serie di riflessioni e di domande.
Intendendo l’educazione come processo intenzionale, integrale e continuo che permette di formarci come soggetti agenti e come comunità e ritenendo che la pedagogia sociale abbia contenuti, pratiche e metodi documentati tanto quanto la scuola: non sarebbe opportuno in un’ottica di rinnovamento del processo educativo strettamente collegato con la vita reale definire che rapporto, che limiti e sconfinamenti ci sono tra le due prassi? Quando si parla di outdoor education, scuole nel bosco ed educazione diffusa, si intendono comunque esperienze che abbracciano la totalità dell’esperienza formativa di una persona? Pur vedendo favorevolmente un’apertura della scuola pubblica al territorio, non sarebbe importante dibattere su cosa questo significhi e come farlo? Cosa comporterebbe tentare di descolarizzare parzialmente il discorso sull’educazione e non sovraccaricare la scuola di operazioni che tenderebbero ad appiattirla e a confonderla con altre realtà?
In conclusione quindi crediamo sia decisivo innestare la costruzione di un processo educativo pubblico, allargato, assembleare e radicalmente democratico improntato alla logica dei Beni Comuni.
Il richiamo ai Beni Comuni vuole qui significare un percorso di progettazione delle Politiche Educative di stampo pubblico, ma con una gestione totalmente rinnovata ed incompatibile con la logica del profitto dei privati.
Possiamo definirli e nominarli come vogliamo: Patti, Alleanze, etc, ma il nodo è il percorso di riappropriazione del tema educativo da parte della Comunità, che si dovrebbe concretizzare nella ideazione, discussione e progettazione attiva delle Politiche Educative da parte di famiglie, ragazzi e ragazze, lavoratori del settore (insegnanti ed educatori sociali) e cittadini interessati. È ora di dare corpo al concetto di comunità educante.
Non si tratta di evocare il protagonismo sociale per puntellare il fatiscente edificio pubblico, sopperendo alle ricadute negative dell’operato dei decisori politici. La logica è quella di una seria opera di democratizzazione delle scelte che riguardano la vita delle persone, tra cui appunto l’Educazione.
È evidente che sarebbe la città, il territorio la vera figura, il vero spazio e ambito di una tale impostazione, non semplici sfondi delle attività umane, ma modalità vere e proprie e proiezioni del nostro modo di intendere le relazioni e lo stile di vita che vogliamo realizzare. È la città/territorio che può costituire il filo rosso tra lotta politica prima delineata e quella specifica autonoma pedagogica.
La sfida è nell’iniziare presto a fare Rete e ricerca tra i soggetti indicati prima, a livello locale e nazionale, per convergere verso un diritto alla città pedagogico, inteso non tanto come generico accesso a opportunità, quanto ad una pratica di ripresa popolare dei temi e delle decisioni che riguardano il territorio e il vivere in comune. Città intesa quindi come sviluppo della società sul territorio che, a partire dalle sue contraddizioni, dalle sue ingiustizie e oppressioni, ci permetta di educarci reciprocamente attraverso pratiche liberanti e emancipative.
Note
[1] Comune e Consorzio, dove siete?, in Officine di resistenza, url: http://www.officinediresistenza.org/index.php?option=com_content&view=article&id=62:comune-e-consorzio-dove-siete&catid=10:operatori-sociali&Itemid=30
[2] E. Isonio, La scuola italiana non funziona più da ascensore sociale, in Valori, url: https://valori.it/scuola-italia-ocse-pisa-disuguaglianze/
[3] G. Fregonara, O. Riva, Dispersione scolastica, l’esercito nascosto dei diplomati “analfabeti”, in Corriere della Sera, 6 ottobre 2019, url: https://www.corriere.it/scuola/secondaria/19_ottobre_06/dispersione-scolastica-l-esercito-nascosto-diplomati-analfabeti-d01f8306-e678-11e9-9d63-abc92eac7ace.shtml